Gli smartphone ci hanno rotto?
05/01/2018 · 1142 parole · Leggi in 6 minuti
Al WAP e ai TVfonini non ci ho mai creduto. Ricordo però un momento decisivo in cui compresi che il rapporto con la tecnologia sarebbe cambiato per sempre. Ero al primo anno di università, e ricevetti in regalo un iPhone 3G: oggetto magico, luccicante, elegante, colorato. Semplice e facile da usare. Un gateway per tutto ciò che Internet prometteva di fare.
Vedevo già la fine dei mali del mondo — o almeno quelli a me più prossimi: la fine della burocrazia, la fine dei tempi morti per fare qualsiasi cosa, informazioni immediate; fine delle ingombranti antenne GPS da auto o del TomTom da parabrezza che poi lasci in macchina e te lo rubano. Fine delle code e delle attese allo sportello.
Era il 2008 e in realtà, per osservare qualche applicazione concreta di quella nuova tecnologia, dovetti aspettare ancora qualche tempo. Tra le più significative, ricordo senza dubbio gmail — una novità sorprendente poter leggere e rispondere ovunque al mondo (più probabilmente dal divano); Viber, per telefonare sfruttando la rete dati o Wi-Fi (a quei tempi gli operatori telefonici facevano di tutto per filtrare app di quel tipo) e in seguito l’home banking.
Tutto il resto si fece attendere non poco: dovetti attendere il più recente 2015 per poter comprare il biglietto della metropolitana di Milano dallo smartphone — in difesa dell’ATM posso dire che l’ultima volta che sono stato a Roma l’unica possibilità era utilizzare una macchinetta automatica che accettava solo contanti. Oggi possiamo fare praticamente qualsiasi cosa, guardare film, ricevere la spesa in un’ora e, se ti trovi in California, ordinare perfino della marijuana a domicilio.
Eppure, nel lontano 2008, con il primo iPhone nelle mie mani, non avrei mai immaginato l’uso principale che avremmo destinato ai nostri amici smartphone: l’arte del cazzeggio. In metropolitana il signore alla mia sinistra fa salti acrobatici tra WhatsApp e Candy Crush. Alla mia destra una ragazza passa il tempo facendo swipe a destra, swipe a sinistra, di nuovo swipe a destra (e così via) sulla home screen tutta colorata del suo iPhone.
Neanche i più lungimiranti scrittori di fantascienza avevano previsto il cazzeggio tra le principali destinazioni d’uso dei nostri potenti computer da tasca.
E. M. Foster in “The Machine Stops” arriva ad anticipare, in tempi non sospetti (nel lontano 1909), un’umanità del futuro dove ognuno vive nella sua stanzetta, dove i rapporti umani sono limitati al minimo necessario; la comunicazione tra le persone avviene attraverso un sistema di messaggistica istantanea (!) gestito dalla Macchina, che si occupa dei bisogni spirituali e materiali dell’umanità.
La stessa cosa vale per l’arcinoto Star Trek, che ha nientedimeno anticipato il telefono a conchiglia (o la custodia richiudibile dell’iPhone, oggetto di culto per ogni anziano che si rispetti). Nell’universo di Star Trek uomini e donne aggeggiano con il mitico tricorder, sempre e comunque per altissime finalità: scansionare un territorio inesplorato, riparare una valvola spaziale o per informasi sui costumi del XXI secolo. Mai in nessun episodio di Star Trek qualcuno guarda un film in streaming sul divano e nel frattempo legge il feed delle attività dei propri amici.
Qualcuno ha recentemente fatto notare che, con tutta questa innovazione, le relazioni umane e la nostra capacità di concentrazione ci stanno scappando di mano — come nel caso di Moby e Steve Cutts che tentano di rappresentare il mondo interconnesso in cui viviamo nel video “Are You Lost In The World Like Me”, con quasi sette milioni di visualizzazioni su YouTube.
E mentre in Cina nascono campi per trattare l’assuefazione da Internet, nuovi imprenditori vedono un futuro in cui la tecnologia buona ci salverà dalla tecnologia cattiva. Il trend del telefono “stupido” — che ci permette di fare cioè solo telefonate — ne è un esempio tra tanti.
“Can This Dumb Phone Free Us from Smartphone Addiction?” (“Possiamo disintossicarci dagli smartphone grazie a questo telefono stupido?”) recita l’articolo del MIT Technology Review che descrive il Lightphone ($ 150), un telefono dalle dimensioni di una carta di credito progettato per essere usato “as little as possible”. “Distracted? Focus” recita lo slogan pubblicitario dell’MP01 di Punkt (€ 295) mentre Nokia rilancia il 3310 (€ 59,90) e su KickStarter il telefono “più piccolo della Terra”, Zango T1 ($ 39) riceve una copertura mediatica del tutto inspiegabile.
Ma da cosa vogliamo proteggerci, esattamente? Venire risucchiati dai nostri schermi luminosi fa male? Che male può fare quel rapido scroll del feed Twitter di qualche secondo, che si trasforma in un percorso spazio temporale tra news, gruppi WhatsApp, gruppi Facebook del quartiere?
Michel Harris raccoglie diversi studi nel suo “The End of Absence”: cita ricerche dove l’esposizione agli smartphone causerebbe aumento del deficit dell’attenzione, incremento del livello di stress, decremento di empatia e in generale un atteggiamento più narcisista tra i giovani. In pratica, niente di buono.
Secondo Harris i prodotti tecnologici hanno fatto progressi così veloci da non dare il tempo a noialtri di educarci adeguatamente.
“La radio ci ha messo trentotto anni a raggiungere cinquanta milioni di persone. Il telefono vent’anni. La televisione tredici. Il web quattro, l’iPad solo un anno.”
Ciò apre delle sfide significative nell’educazione delle nuove generazioni che crescono “by default” con uno smartphone in tasca. Harris conclude il suo libro affermando che la tecnologia non è né buona né cattiva, la cosa importante è essere sempre consapevoli dei suoi effetti sulla nostra vita.
La capacità di gestire la nostra attenzione e la nostra energia assume quindi un ruolo importante: nell’economia dove tutto cambia velocemente bisogna essere capaci di imparare competenze complesse in poco tempo. Cal Newport, professore alla Georgetown University, chiama questa capacità “deep work”: nell’economia moderna non sarà più sufficiente completare un compito in modo mediocre, sarà necessario fare in poco tempo e in modo eccellente.
Dunque, controllare compulsivamente e-mail, social network e messaggistica istantanea — strumenti progettati appositamente per rapire la nostra attenzione —, consuma le riserve della nostra forza di volontà. Secondo questa filosofia l’abilità di concentrarsi per risolvere problemi complessi oggi è importante non perché la distrazione sia un male in assoluto, ma perché rappresenta il requisito per costruire e coltivare successi significativi nella vita privata e professionale.
Fortunatamente oggi, oltre al comune buon senso, esistono numerose ricerche — come quelle raccolte da Harris e Newport — che suggeriscono l’importanza di educarci all’uso delle nuove tecnologie per vivere a pieno le relazioni personali. Per avere la pazienza e la capacità nel lungo termine di costruire qualcosa di significativo in ambito professionale.
Se la direzione per chi ha conosciuto la quotidianità prima di Internet è chiara, resta aperta la questione forse più importante: come educheremo la generazione che crescerà dando per scontato la copertura Internet sempre e ovunque?
Su questo argomento non esiste una scienza esatta, tenteremo come al solito e adegueremo il tiro. Resta ironico che Steve Jobs sia diventato noto per aver inventato l’iPad e allo stesso tempo per averlo vietato ai propri figli.